[112] Soros 

 

Se non fosse stato il padre del più famoso George, quella di Tivadar Soros (1894-1968), Teodoro Ŝvarc in esperanto, sarebbe una storia come tante. Almeno all’apparenza.

Ebreo ungherese (la sua famiglia aveva cambiato cognome da Schwartz a Soros nel 1936 a causa del crescente antisemitismo), dottore, avvocato, noto anche con lo pseudonimo di Teo Melas (ricavato dalla resa greca della versione tedesca del suo cognome, Schwartz), la sua vita è stata straordinariamente movimentata, e legata all’esperanto. L’ha raccontata lui stesso nel libro autobiografico Maskerado ĉirkaŭ la morto (“Ballo in maschera attorno alla morte”, 1965), ultimamente tradotto anche in inglese, turco, ungherese, russo e tedesco. Soros incontrò l’esperanto sui campi di battaglia orientali durante la prima guerra mondiale, grazie al suo camerata Pal Balkanyi. Fuggito dopo anni di prigione militare in Siberia durante la rivoluzione russa, a Mosca contribuì alla fondazione della prima associazione esperantista sovietica, e successivamente a Budapest con i suoi amici K. Kalocsay e G. Baghy lanciò nel 1922 la rivista Literatura mondo. Sembra che i proventi di questa rivista, reinvestiti in beni immobili, abbiano costituito le origini della ricchezza della famiglia Soros. Scrisse anche un romanzo breve in esperanto, Modernaj Robinzonoj (“Robinson moderni”, 1923, riedito nel 1999). Suo figlio (vd. sotto) avrebbe poi commentato che la vita di Tivadar Soros, così piena di avventure fino a quel momento, era stata soltanto una preparazione per la sua più grande sfida, la lotta contro l’invasione nazista.

Il titolo della sua autobiografia evoca quei drammatici momenti: “La vita è bella”, esordisce così Soros, “ma la fortuna deve essere dalla tua parte”. Quando l’Ungheria fu invasa dalla Germania nazista, nel 1944, Soros si procurò delle false identità cristiane per sé e per la propria famiglia: la sua pericolosa esperienza come rappresentante dei prigionieri del campo russo gli aveva insegnato il valore dell’anonimato, del saper diventare “invisibile” (all’epoca della Siberia aveva curato un giornale chiamato “L’asse” perché veniva periodicamente affisso a un’asse di legno, con gli autori che si celavano dietro di essa per ascoltare i commenti dei lettori):


The most rational approach, in my view, was complete separation, followed by a quiet effort to blend in with the general population. That is the way animals do it: when they sense danger, instead of presenting a clear target to their enemies, their natural mode of self-preservation is to blend with the scenery and simply disappear. Naturalists call this phenomenon "mimicry."
[brano del libro citato da http://www.ralphmag.org/AW/soros.html].

E divenne così il non-ebreo Elek Szabó, riuscendo a eludere i controlli degli ufficiali nazisti; non solo, ma le sue abilità di sopravvivenza gli permisero anche di salvare altri ebrei aiutandoli a trovare la forza e le risorse necessarie a continuare la loro vita sotto l’oppressione, fornendo ad esempio documenti falsi, o a fuggire verso la libertà. Durante la rivoluzione ungherese del 1956, Soros fuggì con la famiglia a New York, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1968.

Ancora una volta ci troviamo di fronte a un uomo che come già Zamenhof vive lo sradicamento e l’alienazione dell’esilio, della diaspora personale e/o della propria comunità, e che trova un possibile riscatto dalla perdita d’identità (metaforizzata dalla “mascherata” del titolo autobiografico, realizzata nel duplice cambio di nome cui Soros dovette ricorrere per sopravvivere) in una nuova patria “virtuale”, Esperantujo, che nella nuova unità linguistica sogna il ritorno all’antico Eden perduto (ché, in fondo, il primo esiliato fu Adam): per citare ancora le sue parole,


[l]iving as a victim of persecution had heightened my sense of empathy; the condition of all such victims of persecution became my affair, a part of my condition.

Così, per concludere, lo ritrae Bruno Ventavoli su La Stampa del 03/04/2012 (“Soros, l'esperanto smuove le montagne”, http://www.lastampa.it/2012/04/03/cultura/soros-l-esperantosmuove-le-montagne-bdONRST8uGUz9W8MbSu8bL/pagina.html), ricordando anche la traduzione italiana di entrambi i suoi libri:


Chi s’è ritrovato più volte a giocare con la morte, beffando carnefici e imprevisti, sa che l’impossibile diventa possibile se sfidato con ottimismo. E Tivadar Soros di coraggio idealista ne profuse a iosa per traversare indenne gli scempi del Secolo breve. Figlio dell’impero austro-ungarico, ebreo, brillante, colto, sagace, ambizioso, partì per la prima guerra mondiale quando Francesco Giuseppe chiamò riluttante i suoi popoli alla guerra. Prigioniero dei russi per sette anni, fuggì attraverso la Siberia e la rivoluzione; scampò all’Olocausto, salvando la famiglia e aiutando altri perseguitati con la stella gialla; infine scappò dall’Ungheria nel ’56 bucando la cortina di ferro.
A questo curriculum da giocoliere delle tragedie umane, s’aggiunge un dettaglio curioso: fu entusiasta propagandista dell’esperanto, convinto fosse utilissimo per chiacchierare di pace nell’Europa centrale dove le lingue diverse erano scusa per reciproco odio. Fondò una rivista, la animò. Ci trasse, incredibile, anche dei guadagni, perché dagli abbonamenti esteri affluiva valuta preziosissima rispetto al pengö, che si sbriciolava nell’inflazione. Ma soprattutto vi pubblicò a puntate la cronaca della sua anabasi, Robinson in Siberia, nel 1923. Nel ’65 fece poi uscire a sue spese un’altra opera notevole, Ballo in maschera a Budapest. Scherzando con la morte, candidandosi a vate tra i maggiori dell’esperantismo. I due libri escono ora per l’editore Gaspari, tradotti da Margherita Bracci Testasecca, curati da Humphrey Tonkin, che nelle prefazioni, oltre a illustrare la personalità spumeggiante di Soros, sbozza alcuni tratti fascinosi di quella sconosciutissima letteratura.
Come ultimo tassello di una sorte davvero singolare, Soros padre mise al mondo, allevò e educò, due figlioletti, uno dei quali è il finanziere George Soros, che ha studiato Popper e ha fatto per primo capire al mondo dei borsini quale spaventoso esperanto finanziario fosse nato con i derivati nella speculazione globale e sregolata; dall’altro lato, per convinzione profonda, ha convertito parte dei miliardi in fondazioni per la «società aperta», appoggio ai dissidenti dell’Est comunista o della dittatura birmana. Ora, l’ottantenne Soros junior è filantropo a tempo pieno, fustigatore dell’attuale anarchia finanziaria. Ma se non ci fosse stato in famiglia l’uzzolo dell’idioma universale, forse sarebbe rimasto Gyuri, come si chiamava in ungherese, e non George, il primo temuto speculatore globale. Invece, dodicenne, fece parte con il padre della delegazione ungherese che nel ’47 andò in Svizzera al congresso mondiale degli esperantisti (ne parlò anche Márai), poi rimase in Inghilterra a studiare economia anziché tornare nell’Ungheria che stava per finire sotto la dittatura comunista.
Il primo libro, Modernaj Robinzoj, è il rocambolesco diario della fuga di gruppo. Con il piglio vivace dei grandi inviati globetrotter anni Trenta, Soros racconta di sé stesso, avvocato idealista cui la guerra ha rubato la giovinezza, come un novello Robinson, che trasforma le disgrazie della Storia in affascinanti avventure tra nazioni che non esistono più, eserciti invasori, amici che mutano bandiera, cosacchi sanguinari. Se si tratta di fingersi austriaco per uscire da un prigione, impara da un baedeker a memoria quel che bisogna sapere di Linz, e passa l’esame per la libertà. Se c’è da traversare un fiume impossibile, abbatte tronchi, tirandosi appresso persino un burocrate con doti di poeta. E in ogni avversità sprona i disperati a tirare innanzi: «Come sempre succede nella vita, andare avanti è un processo lento», «sia pure a costo di tremendi sforzi è possibile smuovere le montagne», avverte il lettore con sottotitoli dei capitoli quasi pedagogizzanti.
Soros è anche testimone attento degli usi umani. Tramanda, per diretta esperienza, che in situazioni estreme la gente riesce sempre a trovare un linguaggio universale. Dove non c’è più civiltà, resta per esempio il baratto, che assegna strani valori d’uso agli oggetti. Un minatore offre qualche grammo d’oro per tre miseri fiammiferi; e un granello di sale compra varie renne. Simili proposte di scambio, dette sul serio, provocherebbero come minimo cazzotti. Ma là dove gli uomini sono indifesi al cospetto dei ghiacci, spesso preferiscono accordarsi nel dialogo ragionevole, piuttosto che farsi del male vicendevolmente. Incontrando gli Oroci, buoni selvaggi nomadi e ospitali della Siberia sconosciuta, si trova facilmente un corredo essenziale di segni per mangiare insieme accanto al falò. Dimostrazioni sul campo di quanto sarebbe utile un esperanto universale.
Quarantadue anni dopo, ormai esule in America, e bello di ulteriori sventure, il «Robinson» Soros non ha cambiato verve nell’incipit del Ballo in maschera a Budapest: «La vita è bella e varia, ma anche la fortuna è importante». E come se fosse un’altra avventura di sfida alla morte, racconta stavolta d’aver beffato l’Olocausto. Era figlio dell’ebraismo budapestino uscito felice dalla duplice monarchia. Faceva l’avvocato, ma teneva solo tre clienti, non ne ambiva altri, vendeva ogni tanto un immobile per vivere agiatamente, preferiva giocare a tennis e andare sui pattini come nelle commedie cinematografiche che vennero di moda, di Vaszary o Török (i telefoni bianchi).
Nonostante Horthy, le leggi razziali, l’orrore becero del nazismo magiaro, seppe essere un magnifico padre, capace di rendere la vita bella e infondere coraggio ai suoi figlioletti in tempi mostruosi. Si finse cristiano, inventandosi una nuova identità come Lelek Szabó, e riuscì a vivere nascosto, a ingannare la perfidia ottusa, a recapitare messaggi, affittare stanze, regalare sigarette e speranza. Perché chi crede nell’esperanto, e si inzucca pure a studiarlo e a propagandarlo, non è tipo che si lascia intimorire dalla follia, neppure se è sanguinaria.


Il figlio di Tivadar, George Soros (1930-), oggi noto finanziere, miliardario e filantropo, aveva 13 anni nel 1944, quando la Germania nazista conquistò l’Ungheria, e nel 1946 fuggì dal suo Paese sotto l’occupazione sovietica grazie alla partecipazione a un congresso giovanile di esperanto in Occidente. Il padre gli aveva insegnato a parlare l’esperanto sin dalla nascita, e pertanto egli è uno dei non molti denaskaj, persone di lingua nativa esperanto. George Soros emigrò in Inghilterra nel 1947 e si laureò alla London School Of Economics nel 1952 (pare che nel 1947 ebbe modo di rincontrare il padre al congresso esperantista di Berna), per poi trasferirsi nel 1956 negli Stati Uniti insieme alla famiglia. Ha affermato che il suo intento era quello di guadagnare abbastanza denaro a Wall Street per potersi mantenere come autore e filosofo; il suo patrimonio è stato stimato in 11 miliardi di dollari.

Soros ha iniziato la sua attività di filantropo sin dagli anni ‘70, offrendo fondi per aiutare gli studenti neri dell’Università di Cape Town nel Sudafrica dell’apartheid, aiutando anche movimenti dissidenti all'interno della “cortina di ferro”, tramite finanziamenti attraverso l’Open Society Institute (OSI) e la Soros Foundation, che in alcuni casi operava sotto altri nomi, come ad esempio la Stefan Batory Foundation in Polonia. I progetti più importanti hanno compreso aiuti a ricercatori e università del Centro e dell'Est Europa e aiuti ai civili durante l'assedio di Sarajevo. Oltre alle sue attività finanziaria, ha promosso numerose cause internazionali e interculturali – citiamo ad esempio donazioni e finanziamenti alla Central European University (CEU), alla Ukrainian Renaissance Foundation e alla International Science Foundation. Lo spiccato interesse per le cause delle “minoranze” o degli oppressi, oltreché dell’internazionalismo e cosmopolitismo tanto cari all’esperanto, è così palese che non è nemmeno necessario commentarlo.

Riportiamo di sèguito l’articolo che a lui ha dedicato Alison Leigh Cowan per il New York Times il 16.12.2010 (“How Do You Say ‘Billionaire’ in Esperanto?”, http://cityroom.blogs.nytimes.com/2010/12/16/how-do-you-say-billionaire-in-esperanto), seguìto dalla traduzione esperanto che ne ha fatto per il sito esperantista Libera Folio István Ertl (“Kiel diri ‘miliardulo’ en Esperanto?”, http://www.liberafolio.org/2010/kiel-diri-miliardulo-en-esperanto).


For a small group of linguists, scholars, and dreamers who have become accustomed to having their invitations overlooked, it was no small thing when George Soros, the billionaire, walked into the room to celebrate with them.
Yet there he was Wednesday night [15/12/2010] at their symposium, doling out savory morsels about the object of their fancy: Esperanto, a century-old language fashioned in the almost evangelical belief that giving the world a common, easy-to-learn second language would reduce conflict.
Though it never caught on as widely as its inventor, L. L. Zamenhof, hoped and did little to tamp down two world wars, Esperanto still has its followers and fans. A bit messianic themselves, they get a charge learning about the latest literary find or clever Esperanto-infused rap lyric and enjoy replaying for newcomers the scene in “Incubus,” the 1966 cult classic, in which William Shatner seduces a beautiful conquest, not in Klingon, but in Esperanto.
Transcending national boundaries and bridging cultures is the whole idea. “The Koran in Esperanto is one of our nicest works,” said Neil Blonstein, the retired teacher who runs the Universal Esperanto Association and organizedWednesday’s symposium.
Consider it no coincidence, then, that the symposium took place across the street from the United Nations, 151 years to the day that Ludovic Lazarus Zamenhof of Bialystok in what is now Poland was born.
An attentive crowd of 75 participants had just finished screening a new documentary about Esperanto and hearing about a new English translation of the memoir that Mr. Soros’s father, Tivadar, had published in Esperanto in 1923 about the group escape he had led three years earlier from a prisoner of war camp in eastern Russia.
At the lectern, Mr. Soros filled in some details of the group’s escape and fitful trek through Siberia. “The plan was to build a barge — well, not exactly a barge, a raft — and drift down to the ocean, except his geography was not very good, and he did not realize all the rivers led to the Arctic Ocean,” Mr. Soros said. “So as it got colder, they all had to get off.”
He also recounted what it was like growing up in Budapest in the 1930s and ’40s in a home where Esperanto was spoken, making him one of the few native speakers in the room, if not the planet. “This story was very much part of my childhood,” he said, holding up the newly translated memoir.
His father picked up Esperanto in his 20s and helped start “Literatura Mondo,” a literary journal that published works in Esperanto, in Budapest when he returned from his Russia. Poets and other practitioners of the new language frequented his house, and when the 17-year-old George Soros left Budapest to seek his fortune in England in 1947, he said, “one of the first things I did was seek out the Esperanto Society in London” as a friendly refuge.
“It was a very useful language,” Mr. Soros said, “because wherever you went, you found someone to speak with.”
The memoir, whose original title was “Modernaj Robinzonoj,” evoking modern Robinson Crusoes, was published in installments in Tivadar Soros’s literary magazine in 1923. Reissued in English by Mondial, the work has been retitled “Crusoes in Siberia.” With the benefit of experience, the author actually counsels his readers in the introduction to “never dream of becoming Robinson Crusoe” lest they share his fate of wandering waywardly in Siberia.
Despite its age and habit of mentioning places that are hard to locate on maps, the memoir was not that difficult to translate, according to Humphrey Tonkin, the Esperanto scholar who accepted the challenge at the request of the Soros family.
A former president of the University of Hartford and teacher of humanities, he was rather fearless having already produced Esperanto versions of two of Shakespeare’s plays — “Henry V,” complete with its St. Crispin’s Day speech, and “The Winter’s Tale,” with its memorable stage direction involving a bear: “Eliras, sekvata de urso.”
Truth be told, he said, Soros and Shakespeare were both child’s play compared with Winnie the Pooh, whose style of wordplay was hard to capture.
Reciting the children’s classic, he said, “Winnie the Pooh tells Piglet, ‘I met a Heffalump today.’ Piglet says, ‘What was it doing?’ Pooh says, ‘Just lumping along.’ That’s a much bigger problem than Shakespeare.”
Greeted warmly by audience members after the presentations, Mr. Soros, 80, told one cluster of admirers, “I should have told the story of how my father became an Esperantist.”
Urged to put it on the record, he obliged. “The new camp commander in the prison camp arrived, and he was an Esperantist,” Mr. Soros said. “He asked thousands of prisoners if there were any Esperantists among them. There were three. So he invited them for the weekend and feasted them. After that, everyone started learning it.”
Gently, Professor Tonkin told Mr. Soros that he thought another theory was more likely to be accurate but understood how Mr. Soros’s version “makes a much better story.”

Por eta grupo el lingvistoj, universitatanoj kaj revantoj, kiuj kutimas pri neglekto al iliaj invitoj, ne estis bagatelo kiam George Soros, la miliardulo, eniris salonon por festi kune kun ili.
Jen tamen, en ilia simpozio la merkredan vesperon, li mem regalis ilin per bongustaj rakont-pecoj pri ilia amata ĉevaleto: Esperanto, lingvo jarcent-aĝa, kreita laŭ la preskaŭ evangelia kredo ke doni al la mondo komunan, facile lerneblan duan lingvon malpliigos konfliktojn.
Kvankam ĝi neniam disvastiĝis tiom kiom esperis ĝia kreinto, L. L. Zamenhof, kaj apenaŭ eblus diri ke ĝi bremsis du mondmilitojn, Esperanto ankoraŭ havas siajn adeptojn kaj fervorulojn - iom mesiismajn, kiuj ekscias kun ega ĝuo pri la plej freŝa beletra trovaĵo aŭ sagaca rap-teksto Esperanta, kaj plezure montras plian fojon al novvenintoj la scenon el “Incubus,” la klasika kultfilmo el 1966, en kiu William Shatner konkeras belulinon ne en Klingon, sed ja en Esperanto.
La kerna ideo estas transpasi landlimojn kaj ponti inter kulturoj. “Korano estas unu el la plej belaj verkoj kiujn ni havas en Esperanto,” diris Neil Blonstein, la emerita instruisto malantaŭ Universala Esperanto-Asocio, kiu organizis la merkredan simpozion.
Ni ne taksu, do, kiel koincidon ke la simpozio okazis je la alia flanko de la strato kie situas la sidejo de Unuiĝintaj Nacioj, kaj 151 jarojn post la tago kiam naskiĝis Ludoviko Lazaro Zamenhof en Bjalistoko, urbo nuntempe en Pollando.
Atentema amaseto de 75 partoprenantoj ĵus spektis novan dokumentfilmon pri Esperanto kaj aŭdis prezenton pri nova angla traduko de memorlibro kiun la patro de s-ro Soros, Tivadar, publikigis en 1923 pri grupa fuĝo el orient-rusia militkaptitejo, fuĝo kiun li estris tri jarojn pli frue.
Ĉe la pupitro s-ro Soros plenigadis kelkajn breĉojn de la rakonto pri la fuĝo kaj mult-halta migrado de la grupo tra Siberio. “Ili planis konstrui barĝon – nu, ne precize barĝon, sed floson – kaj flosi ĝis la oceano. Nur ke li ne tro bone lernis geografion kaj ne konsciis ke ĉiuj riveroj kondukas al la Arkta Oceano,” rakontis s-ro Soros. “Do, ĉar fariĝis pli malvarme, ili devis forlasi la floson.”
Li ankaŭ priskribis sian edukiĝon en la Budapeŝto de la 1930-aj kaj ’40-aj jaroj, en hejmo kie oni parolis Esperanton, kio igis lin unu el la malmultaj denaskaj parolantoj en la salono, aŭ eĉ tutplanede. “Ĉi tiu historio grave rolis en mia infanaĝo,” li diris, levante la ĵus tradukitan memorlibron.
Lia patro lernis Esperanton 20-kelkjara, kaj kunkreis en Budapeŝto, post sia reveno el Ruslando, la beletran revuon “Literatura Mondo”, kiu aperigis verkojn Esperantlingvajn. Poetoj kaj aliaj lingvouzantoj vizitadis lian domon, kaj kiam, en la aĝo de 17 jaroj, George Soros forlasis Budapeŝton por testi siajn ŝancojn en Anglujo en 1947, “inter la unuaj farendaĵoj estis elserĉi la Londonan Esperanto-Societon”, kiel amikan rifuĝejon.
“La lingvo tre utilis," diris s-ro Soros, "ĉar kien ajn oni iris, eblis trovi iun kun kiu paroli."
La memorlibro, origine titolita “Modernaj Robinzonoj", aperis felietone en la beletra revuo de Tivadar Soros en 1923. Por la anglalingva reapero ĉe Mondial ĝi ricevis la titolon “Crusoes in Siberia” /Robinzonoj en Siberio”/. Tirante konkludon el siaj spertoj, la aŭtoro fakte konsilas enkonduke al siaj legantoj ke ili “neniam revu fariĝi Robinzonoj”, por ne travivi lian sorton de varia vagado tra Siberio.
Malgraŭ la malnoveco kaj la kutime malfacila surmapa troveblo de menciitaj lokoj, la memorlibro ne estis aparte malfacila traduktasko, certigas Humphrey Tonkin, la Esperanta klerulo kiu akceptis la defion laŭ peto de la familio Soros.
Antaŭa prezidanto de la Universitato de Hartford kaj profesoro pri literaturo, Tonkin ne vere trovis la taskon timinda, tradukinte jam en Esperanton du dramojn de Ŝekspiro, “La Vivo de Henriko Kvina” — kune kun ties Krispin-taga parolado — kaj “La Vintra fabelo”, kun ties memorinda instrukcio “Eliras, sekvata de urso” /Esperantlingve en la artikolo/.
Se diri la veron, li aldonis, Soros kaj Ŝekspiro estis ambaŭ infana ludo kompare kun Winnie-la-Pu, kun ties malfacile kaptebla vortludema stilo. Citante el la infana klasikaĵo, li diris: “Jen multe pli granda problemo ol Ŝekspiro.”
Post varmaj salutoj el la publiko post la prezentoj, s-ro Soros, 80-jara, diris al grupo da admirantoj, “Mi devintus rakonti la historion kiel mia patro fariĝis esperantisto.”
Post urĝoj ke li publike konigu tion, li cedis: “Nu, alvenis la nova komandanto de la milikaptitejo, kaj li estis esperantisto. Li demandadis al miloj da kaptitoj ĉu estas inter ili esperantistoj. Troviĝis tri. Tiujn li invitis por la semajnfino kaj regalis ilin. Post tio, ĉiuj eklernis la lingvon.”
Profesoro Tonkin afable diris al s-ro Soros ke li supozas alian teorion pri la okazaĵoj pli verŝajna, sed li konsentis ke la versio de s-ro Soros “estas pli bona rakonto”.


Kiu groŝon ne honoras, eĉ duongroŝon ne valoras [1000] è, attualizzato in riferimento all’euro: “Chi non onora un centesimo, non ne vale nemmeno mezzo”.

 

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